Stamattina: “ciao Papi”.
Lei mi fulmina con lo sguardo.
Cultura del sospetto o ciarpame senza pudore?
30 giovedì Apr 2009
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inStamattina: “ciao Papi”.
Lei mi fulmina con lo sguardo.
Cultura del sospetto o ciarpame senza pudore?
28 martedì Apr 2009
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Es un tiempo de mierda.
Così si esprimeva nel XVII secolo un anonimo poeta andaluso, ma tra le righe vi leggiamo una preoccupazione intrinseca, giustamente presente, per gli effetti del maltempo sull’umore del popolo.
Non sottovalutate l’ansia che la pioggia vi mette, la tensione che le nuvole vi provocano, l’irritazione per la mota che v’inzacchera. Non sottovalutate la necessità di compensare la tristezza col cibo, grasso e saturo magari. Non sottovalutate la necessità impellente di ingozzarvi di sushi e di sesso contronatura per sfogare la rabbia. Non trastullatevi coi biscotti, ché fate briciole, ma fate massiccio ricorso ai dolci. Lo so, è devastante per il giro vita e per le cosce, ma è ineluttabile.
Non sminuite gli effetti psicosomatici del maltempo, é pericoloso.
Non sminuite il vostro malessere.
Perché è una vera malattia, il meteorismo.
24 venerdì Apr 2009
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inUn tempo possedevo un allevamento di cani. Ne avevo di tutte le taglie e di tutte le razze.
Li amavo molto e ci davo Pal ai miei hani. C’era Gengiscan, un simpatico barboncino, e poi una splendida cagna nera: Chakakan, a cui affiancai presto un compagno per sedare la malinconia, Rufus. E che dire di Candelporco, il bastardino che mi piasciava sempre sul tappeto. E poi Candelpignataro, sempre in mezzo ai piedi.
Non erano sempre di razza, i miei cani. Molti li prendevo al canile per sottrarli ad una vita di abbandono e va detto che alcuni erano proprio sfortunati. Una volta ne presi uno completamente sordo: Canyouhearme.
Al tempo era di moda farli addestrare in lingua tedesca da severi istruttori teutonici. Io, per distinguermi, li portai da un buttero maremmano. Alla sera, mi mettevo all’uscio e invece di fischiare per richiamarli urlavo:maremma buhaiolaaaaaaa, e loro accorrevano per la pappa serale. Tesori.
Beh, li accomunò un tragico destino: ogni qualvolta si appropinquavano ai cespugli per espletare la minzione, venivano regolarmente impallinati dal mio vicino, cacciatore incallito. Lui sparava appena vedeva muoversi la siepe di recinzione, che era appena più alta dei miei hani. Assassino.
Poi mi feci furbo. Presi un cane di grossa taglia con un pelo lunghissimo. Feci scorta di gel studio line e lo miscelai con la brillantina Linetti. Con siffatto pastone modellai il pelo del quadrupede fino a renderlo un’onda impressionante alta quasi un metro. Una cresta pazzesca degna di un punk britannico fine anni 70.
Così visibile non fu assassinato, ma si ammalò di depressione perché oggetto di continuo scherno per l’enorme cresta sempre eretta. Infatti lo chiamavano…
L’ultimo dei miei cani.
21 martedì Apr 2009
Posted uomo donna frutto fiore
inDifficile essere splendidi. Già più facile essere quarantenni.
Succede che vivi con una costante ansia da prestazione, che a volte ti logora, un po’ come lo stress della vita moderna, ma senza carciofone. Succede che ti senti l’invadente sorriso delle masse parentali addosso, che ti trasmette il concetto che tanto tu ce la fai comunque. E infatti tu ce la fai sempre.
Ma lo stato dell’anima splendida impone uno sforzo. L’archè dello splendore è l’autocritica. Assorbire gli appunti intelligenti e costruttivi, dopo che hai imparato a digerirti l’orgoglio, rende oggettivamente migliori. Il tempo fa il resto e magicamente ti trovi a pensarla in modo diverso, logico, corretto, maturo.
Ed è bella la maturità, perché ti fa sentire giusto, pacato, saggio. Ti fa sentire in pace con te stesso e autorizzato a dire sempre quello che pensi. Perché quello che pensi é spesso giusto e, se non è giusto, è comunque concretamente sostenibile.
Ebbene, oggi ho imparato a farmi i cazzi miei.
E vi assicuro che sono un uomo migliore.
19 domenica Apr 2009
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inEra nato a due passi da Monte Castello di Vibio e colà aveva condotto la sua dorata e solinga esistenza. Le passeggiate umide di rugiada, di buon mattino alla domenica, erano state l’unico suo innocente svago. Mai una visita al minuscolo teatro del paese, mai una messa con i compaesani, né un bicchiere all’osteria. Viveva per il suo sterminato allevamento in mezzo all’Umbria. Migliaia di pecore e agnellini. Belli, lanosi, soffici.
Si narrava fosse ricchissimo e che non frequentasse che i suoi animali. Sebbene la sua attività fosse universalmente nota, nessuno al mondo aveva mai conosciuto il suo nome. Curava i suoi agnelli come figli adorati e i compaesani che sovente lambivano i confini delle sue terre, si interrogavano attoniti su come potesse poi sopprimerli senza lacerarsi l’anima nell’udire l’ultimo belato.
Pochi giorni prima di Pasqua, in una ricorrenza che oltreoceano avevano appellato Agnus Day, masse oceaniche migravano da ogni dove a cercare la magia delle carni allevate a Monte Castello, per procacciarsi gli agnelli più teneri, saporiti e costosi del globo.
Gli avventori si accalcavano alla sua porta pregustando deliziosi cosciotti, magnifiche spalle, succulenti carrè, ma anche pancetta e coratella. Spingendosi tra la folla raggiungevano il bancone e, trafelati, chiedevano: “Signore vorrei….” “Lo so, quattro agnelli.”… “Signore, per me….” “Per lei otto.” “Signore, cortesemente” ” Lo so, lei vuole….” Lo stupore si ripeteva ogni anno. Lui, sciamano pecorino, riusciva ad intuire con breve anticipo le ordinazioni dei clienti, rendendo ancor più magico l’agognato acquisto. “Signore, la prego, mi tiene in serbo la carne di…..” “Non si preoccupi, è già pronta.”
Quandò morì, anziano e nababbo, fu edificata per lui la più grande cappella votiva della regione. Sulla lapide, in assenza di indicazioni anagrafiche, fu incisa un’unica nozione.
Il Signore degli agnelli.
17 venerdì Apr 2009
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inOra si ferma. Sì, prima rallenta e poi mi lascia passare. Ci mancherebbe, sono sulle strisce. Eh ma allora perché non accenna a toccare i freni? Rallenta dai. RALLENTA. FRENA CORNUTAZZO FIGLIO DI UN SUV CON IL PARAVACCHE IN ACCIAIO CROMATO. BLOCCA QUEL TUO ENORME VEICOLO DA SUBUMANO CHE COMPENSA LA TUA SCARSA VIRILITA’. ACCORGITI DI ME INVECE DI TELEFONARE ALLA TUA AMANTE CHE POI E’ UN TRANS CHE VA PURE CON TUTTI, TUO PADRE GAY COMPRESO. STRONZOOOOOOOO
Niente. Non si ferma quel gran puttaniere mascherato. Perché siamo in Italia. Perché da noi il pedone passa sulle strisce solo se l’automobilista si sente in pace col mondo, se ne ha voglia, se non ha fretta, insomma se c’ha cazzi di dargli la precedenza. In Svizzera, in Austria, in Germania i pedoni attraversano sicuri senza nemmeno guardarle le auto, perché hanno la certezza che tutti si fermeranno. A parte gli italiani in trasferta che, infatti, rischiano il linciaggio on the road.
Quanti di noi sanno che il pedone ha sempre la precedenza sulle strisce? Pochi, visto che i miracolati che hanno la fortuna di passare ringraziano sentitamente: e questo non perché siano educati, ma perché pensano di aver ricevuto un favore.
Quanti di noi sanno che sulle strade sprovviste di attraversamenti pedonali i conducenti devono consentire al pedone, che abbia gia’ iniziato l’attraversamento impegnando la carreggiata, di raggiungere il lato opposto in condizioni di sicurezza? Ancora pochi, considerati i balzi da coniglio che tocca fare sulle strade secondarie.
Quanto di noi sanno che non far passare un pedone può costare da 150 a 599 euro di multa? Nessuno, credo.
Allora, fatelo per soldi, per carità cristiana, per senso civico, per spirito mitteleuropeo, per quello che volete, ma d’ora in poi, quando siete in macchina e vedete un pedone, ricordatevi di queste parole:
12 domenica Apr 2009
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inAnche se il volo da Paris Orly era decollato in orario, tutti i passeggeri apparivano provati dall’attesa. Gonzala scoprì a breve che la compagnia low cost aveva accorpato tutti i quattro voli della giornata nell’ultimo, che finalmente dirigeva verso Venezia.
La sua testa era ancora intontita dai cocktail dell’afterhours nel lounge dell’hotel dove si era svolto il dealer meeting dell’area sales della sua trade company, forse perché non aveva mangiato a sufficienza né al coffe break, né al lunch time e il suo cheaf continuava a rabboccare il suo bloody mary, alternandolo a gin tonic.
Guardò dal finestrino le Alpi innevate e realizzò quanto odiasse volare, o meglio quanto avesse paura di precipitare. Si controllò le mutande. Ogni volta che intraprendeva un’attività che contemplasse un minimo di rischio, indossava biancheria nuova di zecca, per scongiurare il rischio di imbarazzanti ispezioni da parte del personale sanitario intervenuto sul luogo del disastro. Retaggio d’altri tempi, ma monito martellante. Si ispezionò l’intimità ed apprese con sconcerto di avere ancora addosso i pantaloni del pigiama. Con i disegni colorati della Pimpa.
L’aereo iniziò la fase di atterraggio. Il disturbo era sempre quello. Orecchie tappate, la melodia ricorrente di un cantore partenopeo che aspirava le h anche se assenti nel testo e un incessante tremolio dei polsi.
La navetta la trasferì dal Marco Polo a piazzale Roma. Gonzala, col solo bagaglio a mano dato che la sua enorme Samsonite era finita ad Amsterdam, aiutò un anziano signore coi tratti indocinesi ma assolutamente abile nella deambulazione ad attraversare la strada. Nel breve tragitto sulle strisce pedonali, l’uomo le raccontò dell’amato nipote, affermato e generoso, ma con l’unico difetto di guidare potenti auto tedesche di amici spilorci.
Arrivò finalmente a Murano col cuore gonfio di speranza. Voleva rivederlo, ma non sapeva in quale vetreria artigianale lavorasse. Ne visitò decine e alla fine lo vide: gli occhi di un profondo celeste, l’incarnato che solo un figlio di Andria poteva vantare. Lui, fissandola negli occhi, avvicinò la bocca al tubo e soffiò per lei un meraviglioso cupido. Lei provò a ricambiare ma riusci a modellare solo un ammasso grigiastro di vetro fuso. E poi, insieme, a bocche unite, soffiarono un cuore stupendo.
Presero le loro creazioni e corsero verso Venezia. Saltellando mano nella mano tra calli e ponti, salirono sul ponte di Calatrava e agganciarono un lucchetto. Noncuranti della denuncia per danneggiamento, si baciarono a lungo, si fissarono negli occhi complici e con unico gesto lanciarono in aria le opere che l’amore aveva soffiato per loro.
3 vetri sopra il cielo.
10 venerdì Apr 2009
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inSettimana di passione questa. Riassumiamo, ma allerta perché c’ho acidità, oggi.
Silvio è sempre all’Aquila. La terra tenta di scrollarselo di dosso e lo fa mille volte. Diteglielo di togliersi di lì.
La televisione reagisce al dolore omettendo i programmi comici. I tg vanno comunque in onda. Spinoza.it riassume con genio: soddisfazione al tg1, nella giornata del terremoto gli ascolti volano. In cerchio.
X factor non va in onda. Con gli ascolti che fa, pensare ad uno show per raccogliere fondi pro-terremotati tramite il televoto sarebbe stata una pensata degna di Morgan. Ma sappiamo dove ha la testa e soprattutto le mani in questo momento.
Presto dovremo ripensare ai palazzinari che costruiscono edifici di merda e a scienziati sotto inchiesta per aver previsto un terremoto in Abruzzo.
Da oltre Tevere fanno sapere che andranno all’Aquila quanto prima. Con calma, tanto il terremoto non è ancora finito. Ecco, magari celebrare personalmente i funerali delle 287 vittime sarebbe stato un gesto di grande vicinanza umana e spirituale.
Appunto.
05 domenica Apr 2009
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Arisa, Arthur, Cambogia, caos calmo, Elle, In the mood for writing, sichiamamassimoquestoblog, spritz all'aperol, Trabucco, Vietnam
Bastardi. Paracadutarmi nel bel mezzo della Cambogia, solo, senz’armi né viveri. Mi lascio atterrare planando, leggero come un uccello, in mezzo alla boscaglia. Nascondo il paracadute e mi dirigo verso un centro abitato. Nella strada provinciale vengo quasi investito da un’ Audi 2500 guidata da un architetto spilorcio; l’auto schiva per un pelo anche un nonnino cantastorie che incede claudicando a bordo strada: pazzi cambogiani. Prendo una mulattiera interna, cammino guardingo e nelle capanne adiacenti scorgo l’indocina intenta negli affari quotidiani; odo nitidamente un accento di Saigon: è una donna con delle splendide scarpe fucsia tacco 12 che partorisce con dolore. Pazze vietnamite, senza epidurale. Mi accingo a soccorrerla ma ignoti, forse Thai, mi attaccano alle spalle brandendo una badòla, antica arma birmana in osso di seppia, che mi procura lesioni e abrasioni lacero contuse guaribili in pochi giorni. I guerrieri mi rincorrono per chilometri; scappo, corro, volo, sbuco vicino ad una strada sterrata. Rubo ad un uomo orinante dietro ad un cespuglio la sua Suzuki Balengo. Parto a tutto gas. Merda, i bastardi non mollano, mi tallonano con una Seat Arisa armata di mitragliette perforanti, mentre le mine anticarro fanno scempio del mio incedere. Giornata d’inferno benedettiddio e allora corro corro corro ma poi sbando e mi cappotto. Fuggo a piedi e mi nascondo in uno zuccherificio abbandonato. Entro e mi sovviene all’istante il bel culo di mia sorella. Chiudo gli occhi e mi concentro perché a volte si può prescindere da un bel culo, se serve. Certo che serve. Ecco, ci mancava: l’emozione mi stimola la minzione. Non la tengo. Entro in un wc chimico, la faccio, mi tiro su il tanga leopardato ed esco ma la porta non si riapre. Batto ma non c’è nessuno. Allora chiamo, urlo in francese, anche se io ho fatto aramaico alle medie e il francese non dovrei saperlo. Sfondo la porta ed esco.
Il rumore si allontana, adesso, e penso all’esilio che mi hanno imposto. Forse per le interminabili soste fuori dalla scuola di mia figlia. O magari per aver preso da tergo un’amica consenziente. Pazzi italiani.
La polvere si dirada. La pace si impossessa dell’ambiente circostante. Quiete ovunque adesso. La Cambogia è lontana: ho passato il confine e ora è solo pace, tranquillità, solitudine. E’ tutto irrealmente pacifico, in questo nuovo paese. Il silenzio adesso mi placa l’anima.
Laos Calmo.
02 giovedì Apr 2009
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E’ bella, Linda. E sexy pure: porta i jeans con i tacchi alti, medita il rossetto e cura per bene le unghie. E’ brava, Linda: fa i turni in ospedale e si occupa di chi sta male. Vuole tutto, Linda: le attenzioni mature di Bruno, la sicurezza economica di Alessandro, la trasgressione del sassofonista jazz. Il suo vero innamorato, però, rimane Corrado, suo fratello.
Di questo parla “Cera per le sirene“, terzo romanzo di Alberto Ragni (Scritturapura Editore, pagg. 176, € 11,00).
Attraverso gli occhi di Corrado ci innamoriamo gradualmente di Linda, la sorella che tutti avremmo voluto spiare dal buco della serratura mentre fa la doccia; quasi un atto dovuto alla bellezza.
L’aracnide di Forlimpopoli tesse una tela astuta solo per sviarci da Lei e ci narra dell’agonia dello zuccherificio dove lavora Corrado, nell’imminenza della sua chiusura. Con asciutta poesia, pennella le figure umanissime degli operai che controllano le temperature dei forni, la consistenza della pasta e tutti i dettagli tecnici della calata delle barbabietole dai camion provenienti dalla fascia adriatica della penisola.
Sono tutta l’Italia, gli operai di Ragni. Bestemmiano a denti stretti, ma contano le madonne che tirano, giocano a carte nei turni di notte, ma senza distrazione alcuna dalla mansione responsabilizzante che svolgono e all’ultima notte esorcizzano la chiusura della fabbrica con 21 chili di trippa di cavallo, in parte al peperoncino. Sono l’orchestra del Titanic che continua a suonare mentre la nave affonda; non è incoscienza anglosassone, la loro, e nemmeno rassegnazione mediterranea: è il pragmatismo romagnolo, che rende costruttiva la paura e concreta la speranza.
Ma i turni in fabbrica sono solo l’intervallo necessario tra Linda e ancora Linda. Lei che provoca Corrado in reggiseno mentre giocano a carte, che esce dalla doccia con l’accappatoio del fratello, che si toglie i Camperos e gli giace accanto chiamandolo tesoro.
E’ scandalosamente innocente il loro rapporto. Platonicamente incestuoso. E’ sincero e mai impuro e ti consente di scivolarci dentro senza sensi di colpa. Almeno fino all’epilogo, di cui parleremo quando l’avrete letto.
C’ero per la sirena. Questo il titolo immanente.