E’ lunga Genova. Mentre lasci il saliscendi di cemento e approdi al lungomare sgombro dai container, ti vien da dubitare che sia ancora la stessa città da tanto è lunga. E’ una striscia di mare che ti accompagna per trenta chilometri senza farsi annusare. Perché Genova non sa di mare.
Ci sono i palazzi di vetro dell’America intervallati dalle brutte sopraelevate, c’è un po’ di Milano in via venti, palazzi torinesi a contorno di piazza De Ferrari, la kasbah di Marrachech in faccia al Porto Antico. Nei caruggi tutti i cantori intonano paraculi De Andrè e Fossati mentre gli alpini fanno le ronde con un occhio alla vetrina del bar che proietta la Samp dal satellite.
Sono dolci i genovesi. Mica ti fan pesare che hanno Renzo Piano che ogni tanto riordina, e ti raccontano di Lauzi che si vedeva sempre meno in Piazza Erbe perché ormai stava tanto male poverino e poi ti confessano candidi quanto adorino i genovesi famosi che restano a Genova, mica come Villaggio.
Ti vien voglia di viverci a Genova appena scopri di poter mangiare fuori in maniche di camicia a ottobre inoltrato, ma poi ti chiedi in quale Genova riusciresti a rispecchiarti.
E così se continui a scendere scorgendo ormai il monte di Portofino, finisci a Boccadasse, sulla spiaggia che prelude alla farinata. Mentre guardi i condomìni galleggianti della MSC crociere che si allontanano al tramonto per soli 700 euro a settimana, ti rendi conto che e a Rovigo, per dire, il cielo in una stanza mica la si poteva scrivere.
Perchè la musica, a Genova, è sposata col mare.