Mi son sempre chiesto se – come la pancia – pure le tette, magari annunciate con prodromi gentili, si palesino sfrontate una mattina, mentre la giovane allo specchio rimira la morbidezza della stoffa che scende sul corpo.
Una volta spuntate, le tette fungono da monito al mondo che nulla è più come prima. E senza tentennamenti. Le tette sono la dichiarazione d’indipendenza della donna, mentre di diritti dell’uomo proprio non se ne parla. La palpata furtiva al cinema o lo sfioro leggero del capezzolo son conquiste che arrivano quando il ragazzetto – ormai ciecato dall’ipsazione compulsiva – ha quasi perso ogni speranza.
Le tette – al pari delle mine – hanno effetti plurioffensivi, perché se è indubbio che turbano l’adolescente dall’ormone festivo, è accertato che provocano nel di lui padre quarantenne una sorta di leggera tristezza. Insomma io non son pronto a vedere le figlie dei miei amici con le tette. Non lo sarò mai forse. Ma dai ragioniamo: quelle sono bambine, fino all’altro ieri stavano sorridenti e sdentate sulle ginocchia del papà adorante che cantava loro “to to – to to museta” . E poi una sera vai a cena, suoni il campanello e ti aprono la porta con due bocce da infarto. E’ ingiusto, è innaturale.
Quelle stesse tette, crescendo, diventeranno strumenti di tortura o di piacere, forme armoniose per abiti leggeri o, ancora, mezzi di sostentamento nella doppia accezione che magari allatti o che ti assumono solo se popputa. E poi nel tempo saranno ammirate, compresse, rialzate, leccate, ma sempre col rigoroso rispetto che si riserva a due principesse.
E come le altezze reali, misurarle sarebbe riduttivo: prima seconda terza e quarta sono sequenze da gran premio. Per non parlare del gonfiarle a dismisura: triste, patetico e assolutamente inutile, poiché – credetemi – alla fine tutto ciò che non sta in bocca è superfluo.