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Per il popoloso mondo dei timidi due sono i momenti imbarazzanti di un matrimonio cattolico: il primo è lo scambio del segno di pace, quando cerchi invano di asciugarti la mano sudaticcia mentre con la coda dell’occhio sbirci quali astanti paiono disponibili a renderti pace. Il tutto correndo il rischio dell’incrocio di strette di mano dei parenti limitrofi, fonte di imperitura sfiga.
L’altro, a fine banchetto, occorre quando la sposa viene in cerca di te, proprio di te, sì, sulle note di Alive and Kickin’; e ti scova curvo e malcelato dietro il trionfo di frutta caramellata della Mesopotamia. Mentre opponi una blanda resistenza di maniera, ella ti trascina sculettante in mezzo alla pista, il DJ alza le braccia mimando il ritornello, duecentottanta occhi ti guardano e tu devi scegliere. Ma in realtà una vera scelta non ce l’hai: non puoi fingere di esserti appena storto la caviglia o simulare un’improvvisa crisi di asma. Devi ballare o rovinerai la festa agli sposi, e di certo non vuoi incrinare il futuro del connubio amoroso testé suggellato.
Una festa può dirsi riuscita solo se almeno la metà degli invitati si abbandona alle danze, e questa è una regola. Ma è venuto il tempo di occuparsi dell’altra metà, quella potenzialmente in grado di sculettare a ritmo, ma attanagliata dalla presunta goffa inadeguatezza dei propri movimenti rispetto alla pista gremita di ardimentosi, dalla incapacità di assecondare quella cassa in quattro e partecipare compiutamente all’evento collettivo. Insomma, la metà inchiodata al suolo dalla vergogna, qui spogliata dalla positiva accezione di pudore, e tristemente strutturata a guisa di cintura di castità dell’espressività umana.
Ballare in pubblico, per il popoloso mondo dei vergognosi, è liberatorio come camminare nudi su una spiaggia. Sull’arenile adamitico come sulla pista stroboscopica siamo tutti uguali, come mamma ci ha fatto. L’altrui sguardo, se ostinato, cela solo invidia per le membra sobbalzanti.