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La osservi distrattamente mentre la sciarpa amaranto non riesce a  coprire l’alternarsi di bianco e nero, di avorio e legno, di toni e semitoni.

Che poi a volte non ti riesce proprio di tenerti e allora ti siedi, alzi il coperchio e sposti la sciarpina;  tocchi la tastiera senza nemmeno guardarla, ci passi sopra i polpastrelli, la stuzzichi, la sfiori e spesso indugi a occhi chiusi facendo una leggera e alternata pressione sui tasti limitrofi, che infatti trillano.

Le conseguenze delle tue graziose pressioni ti tornano amplificate dalla cassa armonica e ormai hanno già modificato inesorabilmente l’ambiente circostante: i suoni ora esistono, li hai prodotti;  indietro non si torna. I suoni li pensi, ti cantano dentro, ne senti l’eco lontano e finché non arrivano ai polpastrelli sono solo tuoi e spesso non sai se meritano di venire al mondo o devono strozzarsi nelle falangi. Il loro carattere – deciso, invadente, oppure dolce, discreto o semplicemente debole e vicario – si sviluppa durante il magico transito dall’anima alle dita.

Il verdetto sulle tue scelte armoniche è immediato e inappellabile, ma se riesci a non curartene,  continui a creare suoni senza freni, lasciandoli uscire esattamente come ti comanda quella specie di vento caldo che dalla base del collo ti si irradia leggero fino alle braccia, per spegnersi tra le mani. E finisce che ci balli con i tasti, li corteggi, li tormenti, li illudi, li abbandoni e poi ritorni e li percorri, li stuzzichi, li percuoti e ci litighi e poi asciughi i disastri.

Se quel vento ha indotto leggeri brividi increspando la pelle di schiene sensibili, hai fatto la magia e la fierezza ti è concessa.