Donne, du du du (2)

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cof

Certo, c’è chi si lancia impavido con la corda elastica da un ponte, chi lo fa col paracadute ma senza istruttore e chi, invece, rischia la pelle immortalando squali e mostri orrendi nell’oceano profondo, anche senza gabbia d’acciaio. Beh, sono quisquilie miei cari. Io sono andato a New York con quattro donne.

Il capoverso si impone affinché esauriate gli “ohhh” di stupore per cotanto ardore. Quando i peli ritti si saranno riadagiati sui vostri avambracci abbronzati ci tengo che sappiate che è un’impresa possibile e financo spassosa, se giuocate bene le vostre carte e osservate poche fondamentali regole.

In primo luogo scegliete fanciulle che abbiano stima di voi, come uomo, come padre, come professionista, come blogger, come scrittore e soprattutto che apprezzino la vostra oceanica modestia.

All’interno della rosa delle prescelte, sceglietene una che dorma con voi. Avrei potuto adottare vari metodi di selezione, ma ho optato per mia moglie, sottraendomi così a una fastidiosa evirazione con la schiumarola per frittura.

Fate in modo che ognuna si assuma un compito confacente alla propria indole, senza forzature. L’armonia tra donne esiste: basta che ognuna faccia ciò che vuole. Conservate per voi l’attività che tutte loro hanno in odio: guidare per le strade di New York.

Avrete quindi chi cucina, chi vi prepara i cocktail, chi vi indica la strada, chi si esprime in idioma locale e chi si occupa della contabilità del gruppo. Voi dovrete solo condurre l’auto e non criticarle mai, esibendo compiaciuti sorrisi anche in caso di lievissimi errori nella mansione espletata.

Ma si badi, uno scotto immenso andrà sopportato per riequilibrare il sinallagma di tale idillio: la virile e fiera attesa agli store dei musei. Le ancille predette sono reduci dai maggiori capolavori di tutti i tempi e per ovviare alla sindrome di Stendhal si dedicano a un magnete, una matitina, l’agendina per i ragazzi, una borsa per la spesa guarda che simpatica questa e una cartolina per mia mamma no? E più è grande il museo (che ne so: MoMa, Met, Guggenheim?), più opere d’arte vi troverete attaccate al frigo quest’inverno.

Sono una di voi, ragazze.

 

l’età della ragione

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Ora, possiamo razionalizzare quanto vogliamo, ma il giovin virgulto che si accompagna alla donna âgée continua a renderci sospettosi che, in realtà, sottesa alla relazione anagraficamente sperequata, vi sia altro dall’amor: generalmente denaro di lei, gerontofilia, edipi irrisolti.

Non dobbiamo vergognarci delle nostre prime sensazioni, al limite nemmeno del pettegolezzo, visto che “gossip is a sort of storytelling”. Ciò che impensierisce è il pervicace immobilismo nella comoda superficialità, l’accurata e voluta inerzia dell’encefalo rispetto al confronto con livelli di pensiero non dico di pari opportunità avanguardista, ma anche solo di mera discussione al desco familiare.

Arduo smantellare pregiudizi culturali, lo so, specie per generazioni nate col trash che infarciva i B movie anni 70, i frosci e i watussi altissimi negri, che magari nei film si accomiatavano con “zi padrone” o infermiere venete dal contegno lascivo e costantemente palpeggiate da imprenditori brianzoli dalla voce roca. Ma fatti non fummo a viver come bruti, e allora via di upgrade mentale.

La prima considerazione, lapalissiana, è che la situazione opposta, quella con l’ uomo anziano che si accompagna tronfio a una coetanea della figlia, non solo è cosa quasi banale, ma è ormai chiaro sintomo di potere acquisito. Piaccia o non piaccia, queste fanciulle-badanti non sono cooptate ad assecondare la uallera, e allora si esiga rispetto per le loro scelte, d’amore o di convenienza che siano. Non danno lustro alle donne? Non esistono più le donne come categoria, esistono gli individui: e che ognuno venga giudicato per il proprio contegno sociale e non per il proprio sesso, o per l’utilizzo che ne fa.

E siamo alla seconda: è arrivato il tempo, appunto, di smetterla di indagare sotto le lenzuola altrui, al fine di categorizzare le persone, armati di una sorta di luminol pseudo-etico, che ormai è bieca pruderie. Rendiamo insondabile la sfera del privatissimo e prescindiamo dal giudicarci a seconda dell’orifizio che amiamo trastullare.

Come si cambia una società? A piccole rivoluzioni, proposte da pochi, tollerate da molti e osteggiate dai timorosi. Quando l’abitudine avrà reso consueta quella rivoluzione, sarà tempo di proporre la successiva. Divorzio, aborto, unioni civili. E prossimamente adozione del figliastro (sì, se continuiamo a chiamarla step child adoption, poi ci perdiamo il significato), eutanasia, testamento biologico e poi chissà: messa al bando delle religioni.

Come si cambia l’individuo? Forse insegnandogli che il senso di un dibattito è ancora esprimere una propria idea, ascoltare quella altrui, far emergere la migliore o una terza che sia figlia di entrambe. Che la tempesta dev’essere di cervelli e non di prevaricazione aprioristica e violenta.

Pensiero stupendo

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L’Italia ha un problema apparentemente irrisolvibile: gli italiani. Ciò che manca alla maggior parte di noi è il senso di appartenenza a una comunità, la fiducia in questa aggregazione e in chi la amministra. A cascata, gli italiani cercano continui escamotage per aggirare le imposizioni comunitarie, siano essi leggi regionali, divieti di parcheggio o imposte da pagare. Lo Stato è sempre altro da noi e questa terzietà fastidiosa ci porta a individuarlo come (comodo) nemico in perenne conflitto col nostro benessere. E con contegno dall’antico sapore partenopeo gli italiani da secoli perserverano nel loro intento: inculare i Borboni, sempre e comunque.
Questo ci contraddistingue dai popoli mitteleuropei. I tedeschi sono fieri di rispettare le loro leggi e la cosa diventa contagiosa per l’ambiente e quindi tu, italiano in Germania, ti comporti spontaneamente secondo le regole imposte. E parimenti loro, insomma tutti gli altri, in Italia si atteggiano da barbari, come se l’anarchia selvaggia regnasse sovrana.
Una simile deviazione culturale è talmente radicata nelle generazioni adulte che risulta impossibile porvi rimedio, specie in ambiti dove lo stato è da tempo soppiantato da un welfare criminale ben più efficiente. Certo: si può alzare l’asticella del rigore e incrementare le sanzioni, ma ciò non procurerà stima e affezione verso lo Stato ritenuto impostore, censore o sanguisuga.
In che paese civile ed evoluto la gente se la prenderebbe con l’ente che riscuote le tasse? Equitalia non fa che esigere crediti di altri, e ambasciator non porta pena, altrimenti dovremmo legittimare la pubblica gogna a tutti gli avvocati che recuperano un credito. Come se poi, sparita Equitalia, sparisse magicamente anche il debito.
Si può e si deve intervenire nelle generazioni in via di scolarizzazione. Un bambino che entra alle elementari oggi entro dodici anni voterà. A lui, tramite un corpo docenti non solo eroico, ma ben preparato e pagato secondo le alte responsabilità affidategli e con dei genitori collaboranti e non sempre schierati a difesa dei pargoli, possiamo insegnare il rispetto delle istituzioni, il senso dello Stato, la solidarietà, le lingue straniere, l’integrazione culturale e soprattutto la storia. Perché se non conosci il passato, non sai dare giuste soluzioni al presente.
E nel contempo creiamo una classe dirigente giovane, con un culto quasi giornalistico per la ricerca della verità, il coraggio di demolire l’ingiusto e lo spessore culturale per ricostruire il giusto. E insegniamo loro la storia. Perché se non conosci il passato, non puoi costruire un futuro.
Ok, ora torniamo alle tette della Boschi.

Dance dance, dance.

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o

dance

Per il popoloso mondo dei timidi due sono i momenti imbarazzanti di un matrimonio cattolico: il primo è lo scambio del segno di pace, quando cerchi invano di asciugarti la mano sudaticcia mentre con la coda dell’occhio sbirci quali astanti paiono disponibili a renderti pace. Il tutto correndo il rischio dell’incrocio di strette di mano dei parenti limitrofi, fonte di imperitura sfiga.

L’altro, a fine banchetto, occorre quando la sposa viene in cerca di te, proprio di te, sì, sulle note di Alive and Kickin’; e ti scova curvo e malcelato dietro il trionfo di frutta caramellata della Mesopotamia. Mentre opponi una blanda resistenza di maniera, ella ti trascina sculettante in mezzo alla pista, il DJ alza le braccia mimando il ritornello, duecentottanta occhi ti guardano e tu devi scegliere. Ma in realtà una vera scelta non ce l’hai: non puoi fingere di esserti appena storto la caviglia o simulare un’improvvisa crisi di asma. Devi ballare o rovinerai la festa agli sposi, e di certo non vuoi incrinare il futuro del connubio amoroso testé suggellato.

Una festa può dirsi riuscita solo se almeno la metà degli invitati si abbandona alle danze, e questa è una regola. Ma è venuto il tempo di occuparsi dell’altra metà, quella potenzialmente in grado di sculettare a ritmo, ma attanagliata dalla presunta goffa inadeguatezza dei propri movimenti rispetto alla pista gremita di ardimentosi, dalla incapacità di assecondare quella cassa in quattro e partecipare compiutamente all’evento collettivo. Insomma, la metà inchiodata al suolo dalla vergogna, qui spogliata dalla positiva accezione di pudore, e tristemente strutturata a guisa di cintura di castità dell’espressività umana.

Ballare in pubblico, per il popoloso mondo dei vergognosi, è liberatorio come camminare nudi su una spiaggia. Sull’arenile adamitico come sulla pista stroboscopica siamo tutti uguali, come mamma ci ha fatto. L’altrui sguardo, se ostinato, cela solo invidia per le membra sobbalzanti.

Fiesta

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camicia

La sociologia dovrà spiegarci – e in tempi ragionevoli – perché uomini e donne approcciano con contegno diametralmente opposto alla vestizione, nell’imminenza di un party estivo.

Scontata la frase di lei mentre staziona di fronte all’armadio stracolmo (“oh non ho un cazzo da mettermi”) stupisce come la preparazione dell’outfit sia vissuta tanto diversamente, come se lui e lei andassero a eventi diversi. La femmina si agghinda per profondere eleganza e sesso, battere la concorrenza, sbugiardare le rifatte, sfoggiare quell’abitino che non mette mai e se non lo mette stasera quando lo mette, lui sembra non veda l’ora di sbracarsi, in quel casual finto trasandato che insomma tanto finto non è. L’uomo vive la festa come una ghiotta occasione per liberarsi, la donna come un raro (e mai cercato) momento per esibirsi.

E quando giungi alla festa, resti abbacinato  da cotanta femminea beltade: spalle inattese, décolleté mozzafiato, cosce sorprendenti, tacchi da base jumping, paillettes degne di un capodanno monegasco anche se sei ai 45 della maestra di zumba. E mentre cerchi di contenere il capogiro ipertensivo da overdose di pelle esposta, ti volti verso l’angolo aperitivo e rimani stupito dal numero di camerieri convocati. E invece no, non è il personale di sala, sono gli invitati maschi, raccolti in una macchia di colore uniforme e abbagliante: il bianco ultracandeggiato. E allora ti guardi e realizzi che pure tu non hai avuto alcuna esitazione davanti all’armadio, indossando senza tema di reprimenda la divisa virile da summer party. Camicia bianca manica lunga arrotolata sull’avambraccio, rigorosamente fuori dai pantaloni.

La spiegazione? Semplice, e prevedibile come spesso è l’uomo: il bianco fa onore alla festa e l’abbandono dei lembi fuori dalla cinta svolge il duplice ruolo di comunicare informalità e celare la rotondità che dopo i quaranta tende a stabilizzarsi e a conferire fascino, magari in magica combo col capello brizzolato.

Mo vi voglio davanti all’armadio.

 

 

 

 

 

 

 

Sun of a beach

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mare

I piedi duri e intirizziti da quel sempiterno crampo che è l’umido inverno polentone sprofondano senza alcuna fretta nella sabbia etrusca, immergendosi nel tepore materno e uterino dell’arenile ventoso. Maggio volge al termine, la febbre si arrende, il dolore scema, i nervi mollano le bricole, la nuca cessa di pulsare. E l’aroma dei pini maremmani ti rammenta che il maestoso cappello della Feniglia presto lenirà il calore del sole meridiano  sul tuo capo finalmente liberato.

 

Prodigarsi

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denaro

Accumulare denaro è insano. Determina feroci scompensi umorali quando le azioni della tua banca, in pratici rotoloni, assolvono ormai a funzioni igieniche, provoca frequenti  disturbi del sonno mentre valuti rumori notturni provenienti dalla cassaforte al pian terreno. Per non parlare dei preparativi per la prossima partenza: l’allocazione segreta di gioielli, pellicce e argenteria sarà motivo di ansia incontrollabile. Ah, poi c’è tutto un mondo di sospetti fondatissimi di amicizie o amori leggermente interessati. Insomma, siamo sicuri che il denaro porti la felicità? Mah, dipende.

Forse il segreto sta nell’avere denaro sufficiente per non pensare al denaro. E spendere il surplus, iniettando nuova linfa al commercio asfittico. Comprare libri, andare al cinema, visitare luoghi, farsi massaggiare, testare ristoranti stellati o fare beneficienza. Solo così il denaro rende realmente felici. Accumularne con contegno disneyano porterà solo alle nevrosi tipiche del più ricco di Paperopoli.

Non è un caso, del resto, che le famiglie molto abbienti siano spesso le più divise e infelici e che i figli viziati assumano sembianze di fallocefali. Infatti, posto che procurarsi il cibo conferisce un senso concreto alla vita, la pappa pronta rammollisce e annoia, inducendo i fortunati ad atteggiamenti deviati e insani. La colonna destra del Corriere ci propone con fierezza le effigi dei rampolli super ricchi, cagionando un acre rimpianto delle miniere del Sulcis, ma così, come palestra vitae.

L’accumulo della Roba è destinato ai tuoi amati eredi? Beh non sforzarti tanto, perché quando – sorseggiando un caffè – ti gusterai la scena dai candidi cirri siderali,  i tuoi figli li scorgerai intenti a contendersi i tuoi centesimi, la magione di famiglia e  – credimi – li sentirai avere l’ardore e l’ardire di ricordarti ingiusto, per aver privilegiato sempre e solo gli immeritevoli.

Semper fidelis?

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coppia felice

L’ Unione Civile ossia il legame giuridico riconosciuto recentemente alle coppie omosessuali, non prevede l’obbligo di fedeltà, come invece (ancora) sussiste per il matrimonio.

Ci sono tra i due istituti delle parificazioni: in tema di patrimonio, regime legale, obblighi di assistenza e convivenza, ma mentre le coppie etero convolate a nozze dovranno astenersi dal cornificare, quelle gay pare di no. E non è una differenza di poco momento. E’ vero, l’aver tolto adozioni e obbligo di fedeltà rappresenta il tributo pagato al furore cattolico di parte del governo per l’ok al testo di legge, ma è anche vero che in altri paesi non furiosamente cattolici, l’obbligo di fedeltà per le coppie omosessuali unite giuridicamente non è stato volutamente previsto.

In sostanza questa legge, che da noi nasce monca, sotto il profilo della libertà sessuale potrebbe risultare involontariamente all’avanguardia. Ma se così fosse, dovremmo ammettere che retrogrado è il matrimonio tradizionale.

Il punto è: esiste una sorta di sinallagma tra il dovere/piacere di prendersi cura di una persona con cui si sceglie di vivere e la pretesa che non scopi con altri? Perché io ti dovrei magari mantenere e accudire mentre tu dimeni leziosamente le terga al Mucca Pazza, con esiti gaudenti? Gli obblighi di convivenza e assistenza è giusto che siano svincolati dalla fedeltà?

Sinceramente credo di no. Il senso di un’unione sentimentale è l’esclusiva, almeno come regola.

L’aver cancellato l’obbligo di fedeltà nelle unioni civili italiane ha avuto quale unico scopo la mancata parificazione al matrimonio, e ciò influirà anche sulle possibili adozioni, posto che difficilmente un giudice riterrà stabile una coppia non fedele.

Etica della fotografia

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afghanistan

Il rapimento di un’emozione e la sua detenzione imperitura in confini geometrici. Questo è per me la fotografia. E passi che in “post produzione” il fotografo ritocchi saturazione, contrasto, luci e colori, per riportarli a ciò che ha impressionato la sua retina o che la sua mente ha involontariamente mediato, ma photoshop, cazzo no, no e ancora no.

Photoshop è la mistificazione dell’essere, l’inganno della mente, la negazione della realtà terrena e lo si tollera giusto per mercanteggiare prodotti, molto meno se ha fini anoressizzanti sulle modelle.

Modificare digitalmente la struttura di un’immagine significa falsificare la realtà immortalata, (laddove immortalare ha un che di immutabile e definitivo, non a caso). Non si inganna la fonte stessa dell’emozione, e non ci si burla delle emozioni degli spettatori.

Ingenuo che sei, mi han detto, tutti ritoccano le foto. No, mi spiace, esiste un limite etico che informa le opere degli artisti fotografi e li differenzia dai pubblicitari, posto che i primi ti legano per istanti bellissimi alla loro cruda realtà, i secondi ti inducono futili bisogni.

 

 

Cogito ergo sim

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perfetti-sconosciuti

Perfetti sconosciuti è ben scritto. Un paio di (belle) battute andavano forse ritardate di qualche attimo per non sembrare provenienti da un copione e il solito romanesco masticato e in presa diretta spesso lasciava solo intuire parte del dialogo, ma complessivamente è un film godibile.

La pellicola suggerisce che tutti abbiamo tre vite: una pubblica, una privata e una segreta contenuta nella sim del cellulare. Può essere, in effetti. E altrimenti sarà nella memoria del pc o in un diario di carta o semplicemente negli anfratti del cervello, ‘sta vita segreta.

La domanda sottesa è: ma l’amore di coppia esige come indefettibile tributo l’assoluta trasparenza e la reciproca rivelazione di ogni recondito impulso sentimentalmente rilevante? (Lo so: ora sembro Carrie Bradshow).

Forse no. Il punto è che la trasparenza totale mira ad accertare se il partner è adempiente al patto di esclusiva insito nei rapporti di coppia nostrani. E ciò senza contare che la fedeltà è una perversione tutta occidentale secondo Schopenauer (tutto gli fanno dire a Schopenauer, e se non è lui è Kirkegaard, poracci).

Ma attenzione: si può essere fedeli e tuttavia intrattenere rapporti epistolari imbarazzanti o soggetti a facile fraintendimento. Oppure scrivere sconcezze platoniche via web senza mai slenguazzare aliunde. Oppure semplicemente essere maiali e distratti.

Quindi bisogna dirsi tutto o no? Forse no perché: a) se sei fedifrago devi anche tenerti il senso di colpa poiché la confessione è la parte più vile del tradimento (l’ho scritta io ma non so dove) e b) se sei fedele ma hai rapporti fraintendibili devi salvaguardare il partner dalla gelosia e quindi tieni in ordine sto cazzo di telefono pieno di tette e culi.

E a voi che spiate il telefono del partner dico: mai acquisire elementi probatori in maniera fraudolenta se non li potete utilizzare nel processo. Tradotto significa: perché rischiare di acquisire verità scomode che comunque non potete contestare, salvo ammettere, umiliandosi, l’avvenuta ricerca meschina nella sim altrui?

Sim o meno, il telefono è solo un mezzo di agevolazione del tradimento. Ciò che forse è entrato in crisi è lo schema tradizionale della coppia. Magari la fedeltà in futuro non sarà più un dogma, si tornerà all’amore libero e svolazzante e così, finalmente, gli avvocati potranno serenamente estinguersi.